Una premessa è, a mio avviso, opportuna, gli appunti che seguono non prendono spunto da una specifica situazione, nella loro limitatezza, infatti, hanno l’ambizione di individuare le ‘leggi generali’ che regolano, quantomeno in Italia e, in qualche misura, nei paesi a capitalismo sviluppato e a regime democratico parlamentare. la pratica dello scontro di piazza.
Per evidenti ragioni di tempo e di spazio argomenterò per semplificazioni fortissime, con l’evidente rischio di cadere nella caricatura, d’altro canto una valutazione equilibrata della materia ritengo sia possibile anche in maniera molto sintetica.
Partiamo da una domanda che può sembrare banale o provocatoria e cioè se gli scontri con la polizia siano un mezzo volto a pervenire a un qualche obiettivo o un fine desiderabile in sé.
Posta in questi termini possiamo immaginare i moralisti a un tanto al soldo che schiamazzeranno sostenendo che lo scontro non può né deve essere esso stesso un obiettivo e che deve avere un fine più alto e più nobile.
Se esaminiamo freddamente la questione e consideriamo che gli esseri umani agiscono sia come individui che come massa, di regola sulla base di passioni e perseguendo delle specifiche forme di piacere, appare evidente che la rivolta può avere una sua desiderabilità che prescinde dai fini ai quali qualcuno può pretendere di volgerla.
E’ possibile a questo proposito fare molti esempi e non manca un’ampia letteratura. Ne farò, in questa occasione, uno assolutamente personale: avendo insegnato nelle scuole serali di Barriera di Milano ho avuto modo di conoscere diversi lavoratori che, giovanissimi, avevano partecipato alla rivolta di Piazza Statuto, evento fondativo del ciclo di lotte degli anni ’60 e ’70, un vero e proprio mito per ampi settori della nuova sinistra, e provocazione padronale per il partito comunista sul quale per decenni si è discusso e ci si è divisi.
Bene, quando ho chiesto loro di quest’esperienza, per me, come ricordavo, mitologica, tutti serenamente mi hanno informato del fatto che si erano molto divertiti ed era assolutamente evidente che nella loro vita quell’esperienza non era poi così importante. In altri termini avevano aperto un’importante stagione di lotte giovanili ed operaie senza proporselo e senza averne nemmeno percezione.
D’altro canto, se guardiamo ad esperienze assolutamente diverse per quel che riguarda l’oggetto e il contesto rispetto a quella, è oggi usuale una pratica diffusa degli scontri con la polizia ad opera dei sostenitori di diverse squadre di calcio, non di rado fascisti, che sono presumibilmente quelli che in questa fase storica si distinguono in questa attività e la praticano con ben maggior continuità e vivacità rispetto agli “antagonisti”.
E’ comunque chiaro che lo scontro con la polizia, sia di carattere ludico sia se volto ad obiettivi che vanno oltre lo scontro stesso, ha una precondizione evidente: deve esserci una partecipazione ampia e un rapporto ragionevole fra costi e benefici. Nell’attuale contesto di relativa tranquillità sociale, per fare un caso, un gruppo politico per sua stessa natura molto più controllato dagli apparati di polizia rispetto agli ultras, che facesse degli scontri con la polizia una pratica continua e significativa oggi pagherebbe inevitabilmente un prezzo fuor di misura, non fosse altro che perché le tecniche di controllo e riconoscimento disponibili alle forze dell'”ordine” rendono facilissimo all’apparato statale il sanzionare oltremisura chi facesse dello scontro di piazza una prassi abituale.
Laddove si prenda invece in esame in specifico l’affrontamento come mezzo, volto all’ottenimento di qualche fine e nella consapevolezza che non vi è un’ermetica separazione fra le due tipologie di pratica, diventa essenziale per una corretta comprensione della dinamica il soggetto sociale che pratica o subisce questa situazione e in quale contesto lo fa.
Si deve quindi tenere conto dell’età media e della composizione politica e sociale dei soggetti che praticano o subiscono lo scontro.
Dal punto di vista “politico” è evidente che la pratica dello scontro può essere vissuta in modo assolutamente diverso
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da gruppi politici che puntano a conquistare l’egemonia in un movimento mediante la propria determinazione nello scontro rispetto a gruppi più “moderati” e, soprattutto, ad una massa indifferenziata di manifestanti che trovano magari poco gradevole semplicemente respirare del gas nel momento in cui non sono affatto intenzionati a scontrarsi e perciò vivono lo scontro con la polizia come un qualcosa che viene loro imposto;
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al contrario, da gruppi politici che, per le più varie ragioni, puntano ad una manifestazione “ordinata” e vivono come “provocatori” gruppi o settori di movimento che intendono dare un segnale di vivacità e di rottura della pratica rituale della manifestazione.
Piaccia o meno, in questi casi, siamo di fronte ad una, se vogliamo fisiologica, lotta per l’egemonia che passa per la contrapposizione di stili di manifestazione, di tassi di vivacità, di miti e narrazioni.
In ogni caso, dal mio punto di vista, si tratta di valutare le dinamiche con attenzione e senza inopportune generalizzazioni, non foss’altro perché non è facile distinguere fra un’azione di settori di movimento che spingono avanti il conflitto e organizzazioni che vogliono semplicemente imporre una linea e conquistare egemonia sul movimento stesso.
Proviamo ora a spostare l’asse del discorso dalla contraddizione manifestanti/polizia o, se si preferisce, manifestanti/potere politico a quella capitale/lavoro che non è necessariamente solo quella “sindacale” ma anzi caratterizza tutte le lotte che colpiscono pesantemente gli interessi economici e politici delle classi dominanti, le lotte, insomma, che “fanno male” al potere e non solo, in qualche misura, a qualche poliziotto.
Per quel che riguarda i conflitti non sindacali dal rilevante impatto economico basta pensare alla violenza della repressione nel corso degli anni contro il movimento NO TAV.
Penso, a questo proposito, al film/documentario “Archiviato – l’obbligatorietà dell’azione penale in Valsusa” che documenta, riprendo dalla presentazione, come
“Contro il movimento No Tav è stata avviata in questi ultimi anni una repressione durissima: più di 1000 imputati, decine di processi, centinaia di condanne per reati commessi nel corso della lunga resistenza popolare.
Per contro, le centinaia di denunce presentate da attivisti e simpatizzanti del Movimento sono state regolarmente archiviate e non sono mai giunte ad un vaglio pubblico e dibattimentale.”
Ciò che particolarmente impressiona nel film è quanti sono stati i manifestanti che hanno subito violenze e l’assoluta copertura che la magistratura ha fornito alle forze dell'”ordine” responsabili di queste violenze, mentre agiva con assoluta durezza contro il movimento NO TAV.
Ancora una volta, vanno evitate generalizzazioni improprie, se è vero che la violenza del potere si esercita con particolare intensità di fronte a lotte che ne colpiscono gli interessi economici è anche vero che vi sono casi nei quali, si pensi ai fatti di Genova del 2001, opera la semplice volontà di imporre la propria autorità da parte di un ceto politico.
La questione che però è centrale è comprendere come nello scontro capitale/lavoro entri in campo un universo umano, la working class nella sua generalità, radicalmente diverso dal manifestante tipo, e si giochi una partita diversa e decisamente più pesante.
Ora, la prima caratteristica della radicalizzazione della working class è il fatto che sorprende in primo luogo coloro che si radicalizzano e, per questo stesso motivo, “sorprende” e colpisce l’avversario. Va poi considerato che nello scontro col capitale, soprattutto quando duro, ci si gioca molto più di quello che si gioca nel corso della classica “manifestazione con scontri e tutto”, per citare un famoso modo di dire degli anni ’60.
Si rischia infatti il posto di lavoro, si mette a repentaglio la possibilità di carriera, ci si scontra la gerarchia aziendale, si hanno soprattutto “ricadute” nel tempo come dimostrano i molti compagni che ho conosciuto che si sono visti serenamente inchiodare per anni o per decenni ai livelli più bassi in azienda se non spedire nei reparti più fetenti o attribuire gli orari peggiori.
Insomma, paradossalmente, lo scontro più duro, aspro, violento è proprio quello meno visibile e meno valorizzato dal punto di vista mediatico.
E’ ovvio che quanto detto sinora si fonda su di una premessa, peraltro esplicita, e cioè la scelta di agire, in primo luogo, al fine di favorire la forza, l’unità, l’autorganizzazione dei lavoratori così come sono e non come li vogliamo o sogniamo, e di avere una dialettica vera fra minoranze agenti e classe, e non un agire in proprio da parte di gruppi o aree politiche. Se si prescinde da questa considerazione va anche da sé che le “regole del gioco” sono altre.
Non si tratta, di conseguenza, di demonizzare alcuna forma di azione ma è necessario, almeno a mio avviso, guardare con la necessaria freddezza e capacità di discernimento alle diverse forme ed ai diversi terreni di azione.
Cosimo Scarinzi